ASTENSIONE VIRTUALE E INDENNITA' DI MATERNITA'

Perché le professioniste madri percepiscono la indennità anche se non si astengono dall'attività
 

Di Palma Balsamo
 

Valentina, mia figlia, è nata il 3 ottobre di 16 anni fa. Il giorno 31 dello stesso mese, era un lunedì, ho ripreso a lavorare a pieno ritmo, affidando la bambina per gran parte della giornata alla cura attenta delle nonne, che avrebbero dovuto occuparsene per parecchi anni. Il mio status di giovane procuratore non mi consentiva di assentarmi per mesi dallo studio in cui svolgevo la mia attività, né i modesti guadagni dell'epoca mi consentivano di giovarmi dell'aiuto di collaboratori. 
Era, naturalmente, ancora da venire la normativa che avrebbe poi previsto l'indennità di maternità per le libere professioniste, dunque non mi posi certo di fronte all'alternativa  di una astensione dall'attività  per i tre mesi post partum. Anche se, a dire il vero, non era tanto il timore di minori introiti a motivare la mia ripresa, quanto la difficoltà organizzativa e le notevoli pressioni dei clienti. Certo la possibilità di ricevere un indennizzo mi avrebbe dato la possibilità di farmi sostituire da qualche collega e ritardare così la ripresa dell’attività, limitando i disagi.
Solo con la legge 11 dicembre 1990 n.379, infatti, venne prevista, per le iscritte a una cassa di previdenza per i liberi professionisti, l'erogazione di una indennità di maternità per i periodi di gravidanza e puerperio comprendenti i due mesi antecedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi la data effettiva del parto, in parallelo con quanto previsto per le lavoratrici subordinate dalla legge 1204/71. L'indennità è pari all'80% dei cinque dodicesimi del reddito percepito  e denunciato ai fini fiscali dalla professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda.
Nulla però dice la legge in ordine all'effettivo obbligo di astensione della libera professionista durante detto periodo, e nel silenzio della normativa, i giudici del lavoro avevano risolto il problema utilizzando due interpretazioni sostanzialmente opposte. Di fronte alla pretesa di alcune casse di previdenza di corrispondere l'indennità di maternità a condizione ed in proporzione ai periodi di effettiva astensione dal lavoro, parte della magistratura di merito aveva sostenuto la ragionevolezza della diversificazione in dipendenza della diversità del tipo di lavoro autonomo, ritenendo che  l'astensione dal lavoro fosse lasciata alla libera e responsabile autodeterminazione della interessata. (1)
D'altro canto si era invece ritenuto che l'obbligo di astenersi derivasse direttamente dalla ratio della indennità e dai principi generali in materia di previdenza e assistenza, e dunque si era negata l'erogazione della indennità alle professioniste che avessero continuato a prestare attività .(2)
Tanto che il Pretore di Livorno, dopo aver riconosciuto il diritto alla indennità di maternità alla professionista che nei due mesi antecedenti il parto e nei tre mesi successivi avesse proseguito l'attività professionale, ed aver visto la sentenza riformata in appello con la negazione del diritto, rimetteva la questione alla Corte Costituzionale ritenendo che la legge 379/90, nell'estendere il diritto alla indennità di maternità alle libere professioniste senza imporre come condizione, a differenza di quanto è previsto per le lavoratrici dipendenti, l'astensione effettiva dal lavoro, fosse in contrasto con gli articoli 3, 32 e 37 della Costituzione.
La Corte Costituzionale, che ha deciso la questione con la sentenza n3 del 1998, non ha ravvisato alcuna disparità di trattamento, sulla scorta della considerazione della netta differenza esistente tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, che vale non solo come criterio generale per la legislazione del lavoro, ma anche con riguardo alla tutela della maternità per la quale il legislatore ha dettato norme specifiche.
Già con la sentenza 181/1993 la Corte aveva affermato che "non mancano certo delle differenze fra le lavoratrici subordinate e quelle autonome, non trovandosi queste ultime sotto la pressione (con effetti anche psicologici) di direttive, di programmi, di orari, di attività obbligatorie e fisse, ma potendo distribuire più elasticamente tempo e modalità di lavoro, e sopperendo così in qualche misura alle difficoltà derivanti dalla temporanea incapacità fisica a prestare la normale attività lavorativa". Con la sentenza n3 del 1998 la Corte rileva che "mentre per le lavoratrici dipendenti, soggette ad una etero-direzione della loro attività, la legge ha dovuto imporre ai datori il divieto di impegnare le gestanti negli ultimi due mesi di gravidanza e nei tre successivi al parto, il diverso sistema di autogestione dell'attività consente alle donne professioniste di scegliere liberamente modalità di lavoro tali da conciliare le esigenze professionali con il prevalente interesse del figlio". Da qui la conclusione che non sussiste violazione del principio di uguaglianza stante la non comparabilità delle situazioni poste a raffronto.
Infondata ritiene poi la Corte anche la censura mossa sotto il profilo della violazione dell'art.32 della Costituzione. Dopo aver confermato i precedenti orientamenti secondo cui la tutela della madre  si fonda non soltanto sulla condizione di donna che ha partorito, ma anche sulla funzione che esercita nei confronti del bambino, tutelando la personalità e la salute di entrambi (sentenza 1/1987) e che l'indennità di maternità serve ad assicurare alla madre lavoratrice la possibilità di evitare una radicale riduzione del tenore di vita che il suo lavoro le ha consentito di raggiungere e ad evitare che alla maternità si colleghi uno stato di bisogno economico (sentenza 132/91), la Corte finisce per affermare che "per assolvere in modo adeguato alla funzione materna la libera professionista non deve essere turbata da alcun pregiudizio alla sua attività professionale. Ciò può avvenire lasciando che la lavoratrice svolga detta funzione familiare con la contemporanea cura degli interessi professionali non confliggenti col felice avvio della nuova vita umana. La probabile diminuzione del reddito a motivo della sospensione o riduzione dell'attività lavorativa non incide, comunque, sulla predetta necessaria serenità se compensata dal sostegno economico proveniente dalla solidarietà della categoria cui la donna appartiene".
Il ragionamento operato dalla Corte lascia alquanto perplessi: si presume infatti che la maggiore minaccia alla salvaguardia della salute  della professionista madre sarebbe costituita dal turbamento sul futuro della attività e dalle remore circa una probabile diminuzione del reddito e del tenore di vita, dunque è l'obbligo di astensione dall'attività che semmai le arrecherebbe nocumento, turbandone la serenità.
Nessuna considerazione sul fatto che alla professionista viene così lasciata la scelta di lavorare nel periodo certamente più delicato, con i conseguenti rischi per la salute della madre e del bambino. Evidentemente la Corte, ponendo l'accento solo sul potere di auto-organizzazione, dà per scontato che il lavoro professionale non comporti alcuna fatica per chi lo svolge. Opinione condivisa da qualche commentatore della sentenza in oggetto, per il quale " per comune esperienza, si può osservare facilmente che, salvo il caso eccezionale della gravidanza anomale o del parto distocico, la difficoltà o incapacità fisica della donna a prestare il proprio lavoro è temporalmente piuttosto circoscritta. Tanto più questo è da dire per colei che, come la libera professionista, svolge un lavoro a larga prevalenza, se non esclusivamente, intellettuale".(3)
Poiché la maggior parte di chi legge ben conosce la fatica del lavoro intellettuale, ritengo superfluo ogni commento a riguardo. Ma siamo proprio sicuri che le farmaciste, gli avvocati, i medici possono scegliere di modulare l'attività professionale e i propri orari di lavoro? Ma ve lo immaginate un avvocato impegnato in attività di udienza, che interrompe l'attività ogni tre ore per allattare il proprio figlio? Ma avete presente le condizioni in cui si volgono le udienze nella maggior parte degli uffici giudiziari, spesso sprovvisti persino di tavoli e sedie? Ma avete pensato alla frammentazione degli edifici giudiziari nelle realtà più importanti, e le corse da un lato all'altro delle città che noi avvocati siamo costretti a compiere giornalmente?
Sembra francamente troppo riduttivo esaurire la tutela prevista dall'art 32 della Costituzione nel mantenimento del tenore di vita e nel meccanismo che consenta alla maternità di non divenire un pregiudizio per l'attività professionale. 
Peraltro in passato la Corte aveva giustamente rilevato che il diritto alla salute deve riguardare anche il bambino e che l'astensione dal lavoro ha sì il fine di tutelare la salute della donna nel periodo successivo al parto, ma anche quella del bambino, costituendo la vicinanza della madre "un valido mezzo per consentire di stringere rapporti affettivi indispensabili per lo sviluppo della personalità" (sentenza n.1/1987).
Nell'ipotesi, però, in cui l'indennità economica venga erogata anche a chi non si astiene, vengono vanificate le finalità perseguite dal legislatore che, scoraggiando la donna a lavorare, intendeva proteggere anche il nascituro. Se è vero infatti che la professionista ha un maggiore ambito di libertà nell'organizzare il proprio lavoro, seppure certamente assai più limitato di quanto la Corte presuma, è anche vero che la possibilità di sommare il normale reddito alla indennità può costituire un incentivo a evitare o ridurre il periodo di astensione.
Insomma, se non interrompere l'attività professionale comporta per la donna il mantenimento della propria tranquillità psicologica, certamente non si evitano tutti gli altri possibili rischi per la sua salute e soprattutto non si tutela il minore, cui sarebbe necessaria la presenza della madre nei primi mesi di vita. L'incentivo alla professionista a continuare l'attività viola di fatto una delle finalità più importanti della legge del 1990, e cioè quella di assicurare assistenza al minore.
A parte, poi, queste considerazioni, non convince la possibilità di cumulare reddito professionale e indennità di maternità.
L'indennità , per la sua stessa natura, ha una funzione compensativa della incapacità o inopportunità di lavorare e quindi a percepire un reddito. Se è vero che lo scopo della indennità è quello di garantire alla madre lavoratrice la possibilità di vivere la maternità ed il puerperio senza una radicale diminuzione del tenore di vita, questa tutela dovrebbe operare solo allorché la madre non continui a svolgere regolarmente la sua attività professionale, verificandosi diversamente una sorta di premio ingiustificato per le lavoratrici autonome che decidono di non astenersi dal lavoro. Se dunque, per i diversi tempi e ritmi del lavoro autonomo e per l'assenza di un obbligo di legge, non può presumersi l'impedimento a continuare l'attività lavorativa nei periodi per i quali si ha diritto a percepire l'indennità, sarebbe forse più giusto che questa fosse commisurata alla riduzione del reddito, costituendo appunto una compensazione per la relativa perdita.
Peraltro qualche autore ha rilevato un ulteriore profilo di contrasto con l'art.38 della Costituzione, che garantisce il principio di solidarietà, applicabile anche nel caso degli enti previdenziali professionali. L'indebita duplicazione del reddito, se da un lato costituisce un surplus di tutela, dall'altro rappresenta una sottrazione di risorse necessarie per tutelare i più deboli all'interno della categoria e un aumento di contribuzione per tutti gli appartenenti. La previdenza gestita dalle casse professionali rientra in un sistema di tipo mutualistico in cui è prevista la condivisione del rischio per tutti i contribuenti e in cui dovrebbe esserci una corrispondenza tra rischio e contribuzione; in caso di duplicazione del reddito questa corrispondenza viene meno perché vi saranno lavoratrici che riescono ad ottenere una maggiore tutela economica con un rischio minore. (4)
In conclusione, la ratio ispiratrice della legge 379/90 non può che essere la medesima della legge che nel 1971 aveva introdotto la corresponsione della indennità di maternità a fronte dell'astensione obbligatoria del lavoro per almeno cinque mesi, e cioè  l'esigenza di tutelare la salute della madre e del bambino evitando rigorosamente che la madre svolga attività, che si presume a rischio, nel periodo più pericoloso, o in quello in cui il figlio ha maggiore bisogno di assistenza. Di fronte a tale esigenza fondamentale lasciare la scelta all'esclusiva libertà della interessata appare francamente non condivisibile. E' anzi auspicabile che il Legislatore intervenga a migliorare la tutela apprestata per il lavoro autonomo, ad esempio prevedendo, similmente a quanto previsto per il lavoro subordinato, la estensione della tutela economica oltre il periodo dei cinque mesi, laddove si sia in presenza di una maternità a rischio che imponga un più lungo riposo forzato alla gestante.
 
 
 

(1) Pret.Livorno 20 agosto 1993 in Giur. Merito 1995, 536 ss.; Pret. Catania 24 novembre 1994 in Lavoro nella giurisprudenza 1995, 268 ss.; Pret.Firenze 22 aprile 1994 e Trib.Firenze 22 gennaio 1995 in Toscana lav.giur. 1995, 271 ss.
(2) Trib.Livorno 17 luglio 1996 in Giurisprudenza di merito 1997,497 ss; Trib. Catania 7 giugno 1996, Trib.Rovigo 20 giugno 1997, Trib.Monza 22 settembre 1995, Pret. Roma 18 ottobre 1995, inedite.
(3) Così Vito Lipari in Rivista Giuridica del lavoro e della previdenza Sociale, 1998, fasc.3, pag.385.
(4) Ines Ciolli , L'indennità di maternità a favore delle libere professioniste, in Giurisprudenza Costituzionale 1998, fasc.1, pag.17