Parole d'amore scritte a macchina

Ma sarà poi vero che un laureato conta più di un cantante?

di Lorenzo Locatelli

 Lo confesso, sono un musicista mancato al punto che se qualcuno mi dice che capisco più di musica che di diritto non mi offendo e guardando le medie di reddito della categoria della nazione o la risposta dei media ai problemi della giustizia mi rendo conto che Guccini o aveva preso un abbaglio o era in aperta mala fede quando diceva che mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più di un cantante (L'avvelenata).
 Ma la passione per la musica (rectius: per le canzonette, a scanso di offendere qualcuno) è pur sempre rimasta, al punto che finisco per acquistare libri allucinanti, veri e propri elenchi del telefono musicali (ne cito uno per tutti: Romy Padovano: Hit parade, tutte le classifiche dal 1950 ad oggi..., da ospedale psichiatrico) e non perdo, ovviamente, occasione per acquistare dischi che magari ascolto una sola volta se va bene.
 E così, mi sono accorto che se esiste un vero e proprio filone letterario del diritto che ha fatto la fortuna di diversi autori (John Grisham e Scott Turow per citarne due), è ben difficile reperire nelle canzoni di casa nostra soggetti riferibili alla professione dell'avvocato; più facile, come si vedrà - e tra l'altro in epoca non ancora inquinata dalla Di Pietro mania (più pericolosa di un club di fans di Pupo) - trovare qualche accenno a chi giudica (non è un caso, allora, che i giornalisti la pensino allo stesso modo).
 I giudici sono stati dipinti nelle canzoni italiane da due autori su tutti: Fabrizio De Andrè e Roberto Vecchioni. 
 Inizierò dal secondo: Signor giudice è stata forse ispirata da un momento non proprio felice della sua esistenza di uomo e, pertanto, risente di un certo livore quando pur individua il maggior male della nostra giustizia: la lentezza (chi parla è un detenuto in attesa di colloquiare col magistrato) e la tendenza - anziché migliorare velocità e qualità - a risolvere il problema con l'approssimazione, cosa ben peggiore di una giustizia ritardata e già per questo ingiusta.

Signor giudice le stelle sono chiare per chi le può vedere, magari stando al mare (...), immaginiamo che avrà cose più grandi di noi, forse una moglie troppo giovane, e ci scusiamo con lei di importunarla così ma ci capisca in fondo siamo uomini così così (...); signor giudice lei venga quando vuole più ci farà aspettare più sarà bello uscire (...) e quando verrà giudichi senza pietà (...); signor giudice qui il tempo scorre piano, ma noi che l'adoriamo col tempo ci giochiamo.

 Sul tema, però,  lavori più centrati rimangono di Fabrizio De Andrè; non tralascio per dovere di completezza e per rispetto di chi ha qualche anno più di me la beffarda conclusione de Il gorilla,  ove si narra di un giudice corteggiato sin troppo efficacemente da un quadrumane scappato dalla gabbia e poco conoscitore delle differenze tra la specie umana e la sua.

Dirò soltanto che sul più bello dello spiacevole e cupo dramma, piangeva il giudice come un vitello e negli intervalli gridava mamma, gridava mamma come quel tale cui il giorno prima come ad un pollo con una sentenza un pò originale aveva fatto tagliare il collo.

 Bisogna attendere il 1971 per veder pubblicata Un giudice, ove si dipinge proprio il magistrato che nessuno di noi vorrebbe mai trovare, pieno di rancori verso il prossimo e pronto a sfogare le proprie debolezze, dovute ad una statura non proprio normale, nelle sentenze.

…fu nella notti insonni vegliate al lume del rancore, che preparai l'esame, diventai procuratore, per imboccar la strada che dalle panche di una cattedrale, porta alla sacrestia quindi alla cattedra di un tribunale, giudice finalmente arbitro in terra del bene e del male; e allora la mia statura non dispensò più buon umore, a chi alla sbarra in piedi mi diceva “vostro onore”, e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell'ora dell'addio, non conoscendo affatto la statura di Dio.

 Ma il capolavoro processuale è purtroppo, per lo più, sconosciuto ed è sempre di De Andrè, in un album di forse poca fortuna rispetto al contenuto ma dotato di forti chiaroveggenze (siamo nel 1973): Storia di un impiegato, il brano è Sogno numero due: 

…imputato, il dito più lungo della tua mano è il medio, quello della mia è l'indice, eppure anche tu hai giudicato. Hai assolto e hai condannato al di sopra di me, ma al di sopra di me per quello che hai fatto, per come lo hai rinnovato, il potere ti è grato. Ascolta, una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge; prima cambiarono il giudice e subito dopo la legge. Oggi, un giudice come me lo chiede al potere se può giudicare. Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?

 E gli avvocati, si diceva? 
Per la nostra categoria entra in gioco soprattutto un nome, se non altro perché avvocato lo è: Paolo Conte, l'unico realmente in grado di smussare gli angoli delle pur divertenti ma banali bacchettate di Edoardo Bennato in In prigione, in prigione del 1977.

tu che sei avvocato, serio e preparato e ridi e scherzi poco, ma conosci tutte le regole del gioco: in prigione in prigione, anche tu in prigione e che ti serva da lezione.

 In Per ogni cinquantennio, poco nota storia di una gita organizzata tra persone non più giovani, Paolo Conte ci regale una bella immagine dell’avvocato che, perché tale, si trova obbligato (ma evidentemente la cosa non gli deve spiacere) a fare il bel discorso di fronte a gente della sua stessa età, con problemi però lontani dalle parole enfatiche che, evidentemente, adopera.

nel gruppo manca mai qualche avvocato, a lui tocca di fare il bel discorso, la faccia sua collerica si accende, e ci confonde; ma come parla bene e poi ci spiega: di ferro è questa classe, battimani, ma uno con la testa fra le mani lo guarda dritto senza una piega...

 Ma se già è difficile trovare l'ispirazione per scrivere una canzone sulla professione, figuriamoci sui singoli argomenti di diritto; del resto, chi è il demente che si sentirebbe poeticamente ispirato da una divisione immobiliare, da un risarcimento dei danni o da una procedura fallimentare ?

 Ricordo incidentalmente, per simpatia, Luciano Rossi che cantava semo sempre de più, semo sempre de più i separati, semo la gioia de chi, semo la gioia de chi, semo la gioia degli avvocati, ma è ancora lui, Paolo Conte, ad aver fatto molto di più; non solo ci ha proposto con La ricostruzione del Mocambo il rapporto tra procedura e fallito

…il curatore sembra un buon diavolo, oggi mi ha offerto anche un caffè e mi ha sorriso visto che ero un pò giù e siamo rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più,

ma è riuscito nell'impossibile, e cioè nel trasformare un ricorso per separazione giudiziale in Parole d'amore scritte a macchina, che è anche il titolo della canzone e che considero (perdonatemi, ma il Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, dopo, solo due categorie lo fanno, i cretini ed i poeti, e Conte non mi pare un cretino) una poesia.

Il protagonista si vede notificare un atto processuale - che, anche se qualcuno evidentemente ancora non lo ha capito, non ha certo il potere di racchiudere una storia d'amore finita - ma riesce a scorgere elle fredde pagine dell’uso bollo l'ultima lettera d'amore (scritta a macchina) della propria compagna. 

Memorabile...frasi d'amore scritte a macchina..., la nostra storia in quattro pagine...che, raccontata, ci può perdere...
Ah, formidabile... il tuo avvocato è proprio un asino..., no certe cose non si scrivono... che poi i giudici ne soffrono... 
Eh, eh, eh..., rido perché, a parte lo stile del tuo legale sono parole tue d'amore scritte a macchina, baby, baby, van tanto bene per me...

 Io, da quel giorno del 1990 quando comprai l'album, vedo le separazioni da un altro angolo.