UNIVERSO LIBERE PROFESSIONI
 

Il Direttore intervista Gian Paolo Prandstraller sui nodi più importanti del lavoro intellettuale
 
 

 La riorganizzazione dei processi produttivi secondo moduli articolati e decentrati, anche in dimensioni extra nazionali, connessi all'evoluzione tecnologica ed informatica, costituisce sicuramente la causa principale che giustifica l'esigenza da parte delle imprese di valorizzare categorie di lavoratori dotati di un ampio margine di autonomia organizzativa, responsabili del proprio percorso formativo, ed impegnati a fornire una prestazione qualificata per obiettivi preventivamente concordati anziché secondo parametri temporali meramente quantitativi. Le mutazioni del mondo del lavoro sono tali da eliminare le distanze fra la forma autonoma e quella dipendente del lavoro professionale?

Il vero fenomeno nuovo è il lavoro intellettuale, alias professionale, perché oggi tutti i prodotti 
dell'intelletto sono in realtà professionalizzati. Non esiste più il lavoro intellettuale vecchio tipo di  quei santoni che hanno tenuto campo nella prima metà del nostro secolo, come Sartre, Camus, Heidegger, Croce etc, i quali si presentavano come "intellettuali" tout court, membri cioè di una intellighenzia che non era professionale, ed anzi disprezzavano il lavoro intellettuale applicato professionalmente. Il lavoro intellettuale, inteso dunque come lavoro professionale, ha una doppia, anzi una tripla entratura: il lavoro autonomo, quello delle c.d. libere professioni; il lavoro  professionale dipendente; il lavoro professionale attuato nel quadro delle c.d. collaborazioni coordinate e continuative. Pare che quest'ultimo assetto in Italia occupi già  circa 1.500.000 persone, in gran parte professionisti. Ora, in tutti questi settori, ma particolarmente nei primi due, si attua lavoro professionale, e tutto questo lavoro è caratterizzato da "autonomia". Più esattamente le caratteristiche del lavoro intellettuale sono costituite innanzitutto, appunto, dalla autonomia, e cioè la capacità di autoregolarsi e non dipendere da nessuno. In secondo luogo dalla completezza dell'opera;  in terzo luogo il riferimento continuo a saperi specifici costantemente rinnovati. Il problema vero non è tanto di vedere l'autonomia a livello delle libere professioni, quanto di garantire l'autonomia anche agli altri tipi di lavoro professionale, in particolare quelli subordinati e quelli che si svolgono nell'ambito di collaborazioni coordinate e continuative; perché molto spesso l'autonomia viene confiscata proprio dai meccanismi burocratici della società. Prendiamo l'esempio tipico degli insegnanti, che sono per definizione dei professionisti, ma sono ridotti a funzioni burocratiche, costretti in una gabbia burocratica che toglie loro il requisito dell'autonomia. Quindi il problema è di non limitare il lavoro professionale alle sole professioni autonome, ma di garantirlo anche alle professioni esercitate all'interno di forme e strutture organizzative o di imprese. Naturalmente è un problema difficile, ma credo che nel movimento delle professioni ci sia questa linea di tendenza, che allarga il mondo delle professioni anziché restringerlo.

Lei ha più volte evidenziato la necessità che le professioni si unifichino in un movimento capace di inserirsi fra le forze tradizionali (imprenditori e sindacati dei lavoratori dipendenti) per difendere i diritti del lavoro professionale. Ma sarà possibile contemperare il diverso modo di atteggiarsi del lavoro dipendente, essenzialmente burocratico in senso weberiano, con le diverse caratteristiche del lavoro autonomo? In altre parole, non si rischia di far passare in secondo piano i fattori caratterizzanti delle professioni, come la qualità delle prestazioni, la responsabilità, la capacità di iniziativa, l'enfasi dell'etica a salvaguardia dell'interesse pubblico?

Io penso innanzitutto che il modello di lavoro weberiano sia in piena decadenza, almeno nei paesi avanzati. Sostanzialmente è lo stesso modello che caratterizzava il taylorismo, cioè il tipo di lavoro che è stato teorizzato dall' ing.Taylor nella prima decade di questo secolo. Si tratta di un modello di lavoro fortemente strutturato, parcellizzato, controllato e quindi gravato da un'ipoteca autoritaria. Questo lavoro , in realtà, sta decadendo dappertutto. Le professioni non si identificano assolutamente con questo tipo di lavoro e quindi credo vi sia nel movimento delle professioni la tendenza a creare e a diffondere un altro tipo di lavoro, importante, che caratterizza questa fine secolo; è il lavoro intellettuale - professionale che non ha caratteristiche né burocrariche né weberiane, ma ne ha altre, di cui abbiamo parlato sopra, basate su criteri completamente diversi. Perché è un tipo di lavoro che può essere esperito solo facendo leva sulla conoscenza, scientifica o tecnica, per cui la sua base, il suo fondamento,  non è una qualche gerarchia, ma piuttosto la conoscenza di certi campi che conferisce autorità a chi la possiede. La conoscenza determina una competenza e la competenza produce il rispetto degli altri e una certa dose di autorità, che è quella che garantisce l'autonomia in questo lavoro.

La soppressione degli ordini professionali, visti come una sorta di barriera protezionistica per regolare l'accesso, è un motivo ricorrente nel dibattito politico degli ultimi anni. Eppure se i professionisti vogliono attuare una legittimazione del loro agire devono dare dimostrazione di una competenza effettiva, e dunque aggiornata costantemente, e di un comportamento improntato a parametri etici. L'ordine professionale costituisce ancora l'ente necessario per garantire preparazione, lealtà, disciplina dei professionisti? O si tratta veramente di una istituzione che tende a garantire ingiustificate posizioni di privilegio?

E' una domanda importante che va comunque riferita alla situazione storica italiana. Come è noto vi sono due modi di "riconoscere" le professioni. Uno è il modo anglosassone: i professionisti creano un'associazione, che nasce e si struttura e , in un secondo momento, viene riconosciuta dalla società  sulla base dell'importanza sociale dei suoi compiti  e delle sue funzioni. Vi sono dunque nel mondo anglossassone grandi e importanti associazioni di medici, di avvocati, di infermieri, di ingegneri, ecc..  L'altro è il metodo seguito in Italia e in qualche altro Paese, secondo cui è lo Stato che riconosce la professione. Lungo circa un secolo si  proceduto con varie leggi al riconoscimento delle forme professionali, avvocati, notai, medici  farmacisti, commercialisti, e molti altri. Questo secondo sistema è "statocentrico", perché e riconosce dall'alto le professioni. Lo Stato cioè dice: questo gruppo professionale serve a determinati interessi pubblici, quindi io stato garantisco che coloro che hanno i requisiti necessari (che io determino) vengano protetti e che ad essi venga data un'attività esclusiva in determinati settori. Ora la domanda da porsi è questa: il lavoro intellettuale,  alias professionale, da chi, oggi, è protetto e tutelato in Italia? Da nessuno, ad eccezione che  dagli Ordini. Le associazioni sono ancora molto deboli perché non le hanno mai favorite, le hanno sempre ostacolate, creando invece l' assetto basato sugli Ordini. Gli Ordini difendono la qualità delle professioni e infatti, l'esperienza storica lo ha dimostrato, gli Ordini sono quelli che si sono ribellati quando hanno tentato di livellare il lavoro intellettuale. Quello che accadrà fra venti o trenta anni è per ora oscuro, però attualmente, a mio parere, bisogna mantenere gli Ordini perché sono l'unica barriera che può difendere il lavoro intellettuale. L'unica struttura, che potrà essere modificata o migliorata finché si vuole, ma che costituisce una difesa dell'attività professionale e soprattutto della sua autonomia, che molte forze tendono invece a cancellare. Dunque la questione non va vista in astratto , ma in un contesto storico, quello italiano, che ha avuto questa caratterizzazione, e va vista chiedendosi se esistono altre strutture che possano difendere questo tipo di lavoro, che è nuovo nella società attuale, e che evidentemente riveste per lo Stato un'importanza tale che non può essere lasciato a sé stesso, in balia di chiunque, ma deve difeso, particolarmente per quanto riguarda la sua autonomia.

Le professioni, che pure sono considerate indispensabili per lo sviluppo della società postindustriale, sono duramente contrastate dal mondo politico. Come è possibile favorire una loro effettiva e visibile partecipazione ai processi decisionali del Paese e alla gestione dei loro interessi in rapporto con lo Stato, il potere legislativo, le altre forze sociali?

Qui la mia risposta è netta e per così dire risoluta. Le professioni possono difendere il proprio mondo, i propri i interessi, i propri diritti unicamente costituendo una forza sociale di carattere unitario, che possa conglobare in sé tutte o quasi tutte le forme professionali esistenti. La risposta è di carattere politico. Si può arrivare a questo scopo attraverso un processo unionistico. Come è noto l'unionismo è di due tipi: quello intraprofessionale, fra Ordini e Associazioni di una stessa professione, e quello interprofessionale, tra numerose e diverse professioni, che trovano un punto di convergenza in un Organismo Unitario. Questo secondo caso porta idealmente, tendenzialmente, alla creazione di un organismo di rappresentanza specifico del lavoro professionale. Un organismo generale di rappresentanza, una confederazione generale che rappresenti il lavoro intellettuale,  che attualmente ne è privo. Il tentativo è quello di inserire un cuneo fra le due grandi forme associative, cioè la Confindustria, da un parte, che rappresenta sostanzialmente imprenditori e industriali e, dall'altra, i Sindacati dei lavoratori, che rappresentano il lavoro dipendente, dequalificato. I sindacati vorrebbero ora rappresentare anche il lavoro intellettuale, ma il tentativo è tardivo, a mio avviso, dopo tutto quello che è avvenuto e tutto quello che si è detto contro questo lavoro. Quindi il meccanismo è quello della terza forza, una forza sociale che si ponga fra questi due mastodonti, o monoliti, difficili da scalfire dato il potere che hanno acquisito. Ma l'unica strada è questa, altrimenti quelli che sono in mezzo vengono letteralmente schiacciati, e tra questi vi sono in prima linea i professionisti.

Giuseppe De Rita sostiene che, per far coincidere interessi individuali, rappresentanze collettive e responsabilità istituzionali, occorre una riforma capace di processualità, di continua tenuta sotto controllo dell'evoluzione delle singole professioni e del loro intreccio sul mercato e nelle attese degli utenti.
Cosa ne pensa?

E' chiaro come il sole che occorre una riforma, se ne parla da almeno venti anni della legge - quadro sulle professioni. Il punto è vedere che tipo di riforma. Non una riforma che possa deprimere il mondo professionale, ma una riforma che possa dargli più forza, più rappresentanza, più spazio in una società in cui la conoscenza scientifico-tecnica è essenziale e rappresentata tutta dal mondo professionale. Quanto poi agli intrecci col mercato e con lo Stato, io penso che le professioni devono fare da sé. La loro forza non sta fuori, nella benevolenza di questo o quel legislatore, ma dentro, nella loro capacità di strutturarsi, di organizzarsi, di essere veramente delle forze, di far sentire la propria voce e soprattutto di potenziare e far conoscere i rispettivi saperi. Perché vi sono ancora molti saperi che non sono professionalizzati, mentre dovrebbero esserlo. Vi sono situazioni in cui dei saperi molto importanti devono essere potenziati e non lo sono, e questo dipende essenzialmente dalle stesse professioni e dai loro membri. Il lavoro da fare è autogeno, non è di richieste più o meno reverenziali verso lo Stato o altre forze. Bisogna organizzare e potenziare il mondo professionale che da solo può sollecitare certe provvidenze, anche legislative, che gli sono necessarie. Nei paesi anglosassoni le professioni hanno voce in capitolo sulla legislazione: i medici, cioè. intervengono sui fattori che riguardano la medicina, gli insegnanti sulla scuola, gli ingegneri sulle norme in materia di costruzioni, e così via. In Italia questo fenomeno è proprio solo dei Magistrati, i quali intervengono continuamente, riuniti in associazioni, sui problemi che riguardano la giustizia, ed anche su tutto il resto. Le professioni devono comprendere che devono partecipare alla legislazione, prendendo posizione sui problemi generali, e non abbandonare i campi agli altri e consentire che tutto venga deciso sulla loro testa; pronunciarsi, proporre, avanzare idee sui campi specifici.

Quale rapporto dovrebbero avere le professioni con le istituzioni preposte alla formazione, al fine di poter efficacemente controllare la selezione e la formazione dei suoi membri, nonché il grado di conoscenza e abilità sulle quali rivendicano una giurisdizione?

Io penso, e l'ho detto molte volte, che le professioni devono avere un rapporto diretto con almeno quattro settori fondamentali apparentemente lontani dalle professioni stesse: scuola, formazione, università e ricerca. Non vedo come la struttura professionale, che è quella che incorpora, distribuisce, amministra la conoscenza, possa essere indifferente a questi settori. Sono tipicamente suoi questi settori, quindi deve potervi intervenire. Se ne è parlato in molti convegni, soprattutto dei rapporti con l'università. Deve essere per forza potenziato questo rapporto. L'Università è diventata la principale fucina dei professionisti, come possono questi ignorarla? E' una contraddizione insanabile. D'altra parte anche la formazione è molto importante, seppure più recente, anche se non proprio di ieri. Da un certo momento  in poi la Comunità Europea ha riconosciuto l'importanza della formazione per la qualificazione del lavoro, creando un nuovo percorso di professionalizzazione. Allora sarebbe strano che le professioni ignorassero questa istituzione che sta diventando importantissima  anche al loro interno, se è vero che é in corso un movimento per cui le professioni si autoformano. La formazione dunque entra nelle professioni, e quindi diventa un meccanismo che interessa in modo diretto queste ultime, e non può essere abbandonato a sé stesso. Particolarmente ora che avremo una riforma dell'università, basata sui famosi tre anni più due, diventerà importantissimo per le professioni, se non vogliono che i loro saperi, data la brevità dei curricula, decadano vertiginosamente, creare al loro interno dei percorsi di formazione, che costeranno cari, perché le scuole costano .Bisogna però affrontare questi costi ed evitare, attraverso buoni percorsi di formazione, che i professionisti scendano di livello.

L'evoluzione del mercato chiede oggi al professionista una diversa impostazione organizzativa della propria attività professionale, che sappia collegare la propria specializzazione a quella di altri colleghi, che possa fornire servizi interdisciplinari. Come rispondono in Italia le professioni a queste esigenze?

Hanno risposto sinora male e poco. Ci sono degli epicentri professionali di questo processo. E si chiamano organizzazioni professionali e società professionali. In America e altrove il grande studio in campo legale risale a decenni  e decenni addietro. Già negli anni '60 vi sono opere importanti sulla large law firm in America, noi siamo indietro di parecchi decenni. Il problema è essenzialmente quello dell'organizzazione dello studio, cioè di quella forma organizzativa nella quale non comandano gli amministratori , ma comandano i professionisti. Una organizzazione in cui, anche se ci sono degli organi amministrativi, sono secondari rispetto agli organi professionali. L' università è una di queste organizzazioni, perché la direzione, le decisioni strategiche, le scelte sono fatte dai professori, non dagli uffici tecnici. Nello studio, come pure nei centri di ricerca o di progettazione, solo i professionisti costituiscono l' asse attorno a cui si costruisce l'organizzazione. Ora c'è il problema di diffondere quest'ottica,, nella quale rientra il problema delle società dei professionisti. E' inesplicabile perché in Italia il meccanismo di introduzione delle società professionali sia sempre stato bloccato. Adesso sembra sbloccato per via dell'abrogazione di una norma;  improvvisamente possibile, mentre prima, chissà perché, non si poteva fare una società di professionisti. 
Si  tratta di costruire un tipo di società, eventualmente interdisciplinare, che consenta una struttura organizzativa ampia, capace di far fronte ad una domanda che si è moltiplicata e che spesso coinvolge affari di grande rilevanza, i quali esigono grosse possibilità organizzative. Se, per esempio, uno studio di architettura, o di ingegneria, viene incaricato di realizzare una diga su un grande fiume, e deve progettare, andare sul posto, fare rilevamenti, deve avere una struttura, non può farlo solo con una matita. Io contrasto sempre quei professionisti che dicono "io ho la matita". Con la matita oggi non fai nulla, anche se hai genio, devi avere un struttura alle spalle. Questo vale anche per gli avvocati. Si decideranno dunque a regolamentare le società di professionisti? Il problema è che il grande capitale ostacola questa riforma, perché vuole inserirsi e controllare le società dei professionisti. E' così che si creano le grandi società di ingegneria e si creano fenomeni come quello emerso in Turchia dopo il terremoto. Si è appreso infatti che i professionisti venivano esclusi dal lavoro di progettazione, fatto dai soci speculatori senza il controllo degli ingegneri, degli architetti, ecc..  Noi vogliamo un tipo di società che garantisca che nelle società di professionisti comandino i professionisti e non gli altri.

Esiste il rischio che l'indebolimento dei meccanismi di controllo preventivo delle conoscenze e dell'accesso alla professione, e i conflitti interni alle professioni stesse, comportino l'affermarsi di posizioni neocorporative che tendono a difendere in maniera conservatrice le logiche della loro riproduzione ed il controllo monopolistico delle expertises?

Bisogna fermarsi un momento sul concetto di corporativismo. Perché è un fenomeno tipico, non esclusivamente, ma particolarmente di questo secolo. Cosa era il corporativismo fra le due guerre? In un clima di grande conflitto sociale lo Stato esortava le due "parti", cioè gli imprenditori da un lato e gli operai dall'altro, a strutturarsi in organizzazioni o associazioni molto forti, ma due sole, quella A e quella B, in modo che potesse sedersi in mezzo e tenere le fila della contrattazione sociale, senza rischio di spaccature. Perché il conflitto era fortissimo e c'era il pericolo che saltasse in aria  l'intera società. Questo era il corporativismo classico fra le due guerre, che ha avuto luogo nei paesi democratici, ma anche nei paesi fascisti, in Italia e in Germania. Non era dunque un fenomeno circoscritto a paesi di impianto Keynesiano o democratico. Il problema in Italia è che questo tipo di corporativismo è tuttora presente. Le forze strutturate che contano sono ancora soltanto due: la grande impresa da una parte e i sindacati dei lavoratori dipendenti dall'altra. Quello che sta in mezzo conta pochissimo o non conta affatto. Come si può pretendere in una situazione del genere, che non ha più giustificazioni politiche generali, se non quella di creare una semplificazione (che però è un presupposto ideale e non una necessità) che le professioni non costituiscano un organismo che sia ugualmente forte, possibilmente compatto, per difendere i propri interessi? Che il lavoro intellettuale non sia rappresentato a livello di organismo di rappresentanza di tutto il lavoro professionale? Credo sia una pretesa assurda che cozza contro il criterio seguito dalle altre due grandi forze, che sono fortemente corporative, cioè rappresentano in modo cosciente ed estremamente deciso, gli interessi dei rispettivi corpi, in maniera totalmente strutturata. Il vero problema, allora, non è il corporativismo o la corporazione  a livello delle professioni, cioè di quei gruppi di professionisti che sono i medici, gli avvocati, i notai, etc.; è invece il sistema integrale che è fatto in maniera corporativa e si è dimenticato che l'epoca corporativa, che corrisponde al periodo industriale, è tramontata da almeno trenta anni. Noi oggi navighiamo in un sistema che è indietro di trenta anni. La situazione post-industriale, richiede che le professioni si uniscano e si inseriscano fra quei due giganti che manifestano crepe paurose, perché il lavoro manuale è in piena decadenza dappertutto. Realizzando un'unione che sarà corporativa, come sono corporative le altre due forze. Ne più , né meno: non ci vedo niente di male.