AGLI ORDINI!

Se  e perché vale la pena di difendere gli ordini professionali

di Giuliano Berti Arnoaldi Veli
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 Il dibattito sulla abolizione, o comunque sul radicale ridimensionamento del ruolo degli Ordini professionali, lanciato dalla indagine conoscitiva dell’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato, è tuttora attuale e lontano dall’essere esaurito; anche se, a seguito di varie prese di posizione, e della presentazione del disegno di legge Flick (ora però abbandonato), lo spettro di un radicale rivoluzionamento delle professioni pare essersi allontanato. 

 Prima di giungere a conclusioni che potrebbero rivelarsi premature, credo che dobbiamo riflettere più attentamente di quanto non abbiamo fatto finora sulle vere ragioni che hanno dato voce prima, e iniziativa politica poi, a quello che si è rivelato come un vero movimento di opinione per la abolizione degli ordini professionali. Giacchè, infatti, tutti avrete ben presente la varia messe di articoli e interventi giornalistici che in questi ultimi due anni si sono pronunciati , anche con toni drammatizzanti , per la abolizione di queste sopravvivenze di medioevo che sarebbero gli ordini professionali.

 Partiamo da un dato obiettivamente confortante, per noi. Nei tempi recenti, le libere professioni sono divenute sempre più importanti nella società, perchè mettono a disposizione della società stessa quel bene molto apprezzato e necessario che è la conoscenza specializzata. La conoscenza è, nel grado attuale di sviluppo della società, un mezzo di produzione del quale nessuna economia avanzata può fare a meno: e questo ha dato una spinta al crescere del rilievo sociale delle professioni. Dunque, se le professioni sono in crisi, lo sono per una crisi di crescita, non certo per un calo di importanza.

 Proprio la rilevanza economica delle professioni è la ragione del crescere dell’attenzione del mondo economico verso le professioni stesse; e dell’affermarsi, a livello europeo, dell’idea che le professioni siano imprese di servizi che, in quanto tali, debbono fare i conti con le leggi del mercato (meglio, con le regole del mercato, che non sempre sono in sintonia con le leggi dei vari paesi: tanto che si è potuti giungere a parlare di “deboli frontiere della legalità” rispetto alla forza espansiva del mercato globale). Questo è, esplicitamente, il punto di partenza della indagine dell’Antitrust.

 La posizione dell’Autorità garante ha trovato consenso e alleanze nel mondo economico, specie in quello imprenditoriale, che ha reiteratamente esplicitato l’opinione che i professionisti italiani godano di intollerabili privilegi corporativi, che assicurano loro rendite di posizione non più compatibili in una logica di libero mercato. Secondo questo modo di vedere, si dovrebbe giungere ad una sorta di democratizzazione delle libere professioni,  che dovrebbe trasformarle in tanti segmenti della rete attorno alla quale si organizza la business community, facendo perdere loro le connotazioni storicamente distintive (regolazione dell’accesso, formazione obbligatoria, giurisdizione deontologica).  E poichè lo strumento e al tempo stesso la garanzia del rispetto delle connotazioni attuali delle professioni è data dagli ordini, è più che logico in quest’ottica propugnare la abolizione degli ordini tout court.

 Se sono esatte le premesse, come a me pare, ne consegue che la ipotesi della abolizione degli ordini è una eventualità che non può essere sottovalutata, giacchè è spinta da ragioni di tipo economico che perdurano a dispetto dell’andare e venire delle bozze di legge.

 Ma vale la pena di difendere gli Ordini ? In effetti, ragionando per così dire laicamente, si potrebbe convenire sul fatto che in molti paesi ugualmente avanzati e democratici gli ordini non esistono, e le professioni sono ugualmente praticate e prosperano. Si pensi, per tutti, agli Stati Uniti d’America, dove gli avvocati si riuniscono in associazioni. E, infatti, è proprio a questo sistema di libere associazioni tra professionisti che l’Antitrust mostra di fare riferimento, nel suo recente parere del 5 febbraio 1999, là dove dichiara che il sistema dovrebbe in via generale essere imperniato su associazioni private di professionisti, “che in presenza di determinati requisiti possono conseguire il riconoscimento dello Stato”. Sempre secondo l’Antitrust, il sistema degli ordini dovrebbe rimanere confinato ad ipotesi marginali: a quella professioni cioè il cui esercizio sia caratterizzato contemporaneamente:
a) dal riferimento a principi e valori costituzionali;
b) da una complessità delle prestazioni così elevata da  impedire agli utenti di valutare ex post la qualità dei sevizi resi e la congruità dei costi praticati;
c) infine, dalla particolare rilevanza dei costi sociali conseguenti ad una inadeguata erogazione della prestazione.

 Tali argomentazioni muovono da due presupposti entrambi non condivisibili:
a) che le professioni siano imprese;
b) che la regolamentazione delle stesse debba essere esclusivamente ispirata alla tutela del mercato e della concorrenza.

 E’ già stato notato (Mariani Marini) che il mercato non solo non tutela affatto, ma a volte neppure rispetta i valori dell’individuo. Viceversa, quello che effettivamente differenzia e giustifica il permanere di una forte distinzione fra professioni liberali e imprese di servizi è proprio il fatto che le professioni liberali si occupano dei bisogni della gente connessi alla realizzazione della persona, Per questo, una regolamentazione delle professioni non può essere retta semplicemente dalla logica del profitto, che è quella che legittimamente regola il mercato; ma necessita di un’etica, finalizzata alla tutela dei diritti fondamentali dei cittadini.

 Ecco, qui sta il punto di totale, radicale dissenso con l’Antitrust. L’Antitrust, con i suoi occhiali deformanti che le fanno considerare tutto alla luce delle leggi (anzi, delle regole) del mercato, vede l’ordine solo come una gabola per limitare la concorrenza, come lo strumento di una corporazione che vuol mantenere privilegi secolari. Ma non è così.

 Basti qui richiamare il forte dibattito ideale che si svolse nel 1874, contestualmente alla “invenzione” del sistema ordinistico: cioè a dire, alla approvazione della prima legge professionale dell’Avvocatura, che fu poi di modello a tutte le leggi successive istitutive degli altri ordini libero professionali. Il grande giurista Francesco Carrara, proprio nel suo saggio su presente e futuro dell’avvocatura che è stato recentemente tratto dall’oblio e ripubblicato per iniziativa meritoria del CNF, espresse la sua più ferma contrarietà alla istituzione di un Ordine per gli avvocati, ritenendo che questo potesse portare una diminuzione dell’autonomia dell’avvocatura, rispetto al crescente potere dell’esecutivo. Non c’era bisogno di nessun Ordine, pensava Carrara, giacchè l’avvocatura era già forte di una sua coesione associativa secolare, alimentata dalla propria “missione di frenare gli abusi del potere esecutivo e servire di appoggio al potere giudiziario nella eterna lotta che si è agitata fra queste due forze vivificatrici della società civile”.

 Prevalse la posizione contraria, che era quella di Zanardelli, che spiegò in un celebre discorso che l’Ordine non è una società, non è una corporazione che gode di alcun privilegio, ma “un ordine composto per l’esercizio di uno stesso ministero, per la devozione agli stessi doveri,  per una grande severità nel mantenere fra noi la dignità, l’onore della nostra missione, l’integrità di quei principi che soli possono rendere altamente rispettato l’ufficio nostro nella civile società”.

 Dunque, l’Ordine nasce come un “patto”  tra professione e Stato, con il quale lo Stato fissa le regole di esercizio di una professione costruendole un ordinamento che assicuri il rispetto di determinati requisiti di professionalità  (con le norme sull’accesso e sulla tenuta degli albi) e di eticità (con le norme deontologiche). Questo patto tende dunque ad assicurare garanzie di serietà del professionista, che sono primariamente nell’interesse della collettività.

 Prendiamo l’esempio della deontologia, che è indubbiamente il cuore del sistema ordinistico. Abbiamo sentito dire, e letto sulla stampa, che il controllo deontologico costituirebbe un ingiusto privilegio corporativo, una sorta di giurisdizione più addomesticata che domestica. Le cose stanno esattamente al contrario. Se un professionista, nell’esercizio della sua attività, compie un illecito, risponde dei suoi atti a termini della legge civile e penale, che è uguale per tutti. In più, egli è soggetto anche alla disciplina deontologica dell’Ordine, che si aggiunge alle legge civile e penale: nel senso che il professionista che compie un illecito viene sanzionato due volte, una volta dal  giudice ordinario, e una volta dal suo ordine.  Una volta soppresso l’Ordine, nessun controllo deontologico sarà più possibile, se non in concomitanza dell’accertamento di illeciti civilmente o penalmente rilevanti. Non pare che questa conseguenza possa essere considerata una vittoria dell’utenza.

 Se infatti addiveniamo ad un sistema in cui le professioni sono rette da libere associazioni, esse saranno arbitre di procedere come lo vorranno (non sarebbero libere, altrimenti): potranno prescindere totalmente dalla deontologia, e comunque resterà sempre la possibilità per il professionista espulso da un’associazione di iscriversi ad un’altra. Pare che anche l’Antitrust si sia posto il problema della necessità di controlli e regole, là dove ha fatto cenno alla possibilità di “riconoscimento” di associazioni che rispettino determinati requisiti. Ma se si vuole intervenire nei comportamenti degli associati di libere associazioni, queste associazioni non sono più libere, ma enti finalizzati a garantire allo Stato qualità e moralità dei propri iscritti.  Rispetto al sistema degli ordini, non c’è poi una gran differenza. O forse sì: che in questo ipotetico progetto, si sposterebbe dagli ordini allo stato la funzione di controllo sulle violazioni delle regole.

 La perdita di autonomia che conseguirebbe all’abbandono del sistema degli Ordini sarebbe conseguenza negativa per tutte le professioni liberali, ma negativissima per la professione di avvocato, dato il rilievo costituzionale del diritto di difesa nel quale essa si sostanzia. E dunque, credo che da questo congresso debba uscire un segnale forte e chiaro di assoluta chiusura rispetto alla ipotesi di abbandono del sistema degli ordini.

 Fatto questo punto fermo, nulla impedisce che si apprezzino e si approvino molte, anzi moltissime della affermazioni dell’Antitrust, circa la necessità di superare le antiquate normative che precludono le società professionali, che vietano la pubblicità, che ci ancorano ad un sistema tariffario farraginoso, sostanzialmente ingiusto e assolutamente incomprensibile per i non addetti ai lavori, che disegnano un sistema di accesso ingestibile e del quale non possiamo essere certamente fieri. Ma la tante rimediabili incoerenze e inadeguatezze del sistema non autorizzano a demolire una normativa che, nella sue linee generali, merita di essere mantenuta in primo luogo a tutela del cittadino.